venerdì 23 dicembre 2011

Trapianti: la fede, coadiuvante per la sopravvivenza

Fonte: Nutrimente

di Paola Simonetti

Lo ha dimostrato uno studio condotto in Italia dall’Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa su 179 pazienti: mortalità tripla fra coloro che non credono.

Quello che non può fare in pieno un farmaco forse può realizzarlo la psiche. Essere sostenuti da positività e forza, può infatti, in qualche caso, addirittura aiutare la sopravvivenza. Al di là di qualunque convinzione miracolistica, il Cnr ha dimostrato ad esempio che, nell’ambito di quadri clinici legati ad un trapianto, in alcuni casi a fare la differenza nel decorso della fase post operatoria è la predisposizione alla ricerca di Dio, qualunque confessione religiosa si prediliga.
Insomma, aver fede può aiutare ad allontanare la morte: a dimostrarlo lo studio italiano dell’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa (Ifc-Cnr), condotto su 179 pazienti che hanno subito un trapianto di fegato e seguiti per quattro anni dal gruppo in collaborazione con il dipartimento di Trapiantologia epatica dell’università di Pisa.
“I candidati al trapianto di fegato vengono sottoposti di routine a una valutazione psicologica - ha spiegato il responsabile della ricerca, Franco Bonaguidi, psicologo presso l’Ifc-Cnr -, che ha lo scopo di aiutarli ad affrontare questo momento particolarmente difficile e a identificare eventuali controindicazioni all’intervento. Poiché i pazienti riferivano un profondo ritorno alla religione e alla spiritualità, la nostra ricerca ha indagato tale aspetto, indipendentemente dal credo religioso e dalla partecipazione alle funzioni ecclesiastiche”.
Dalla ricerca, pubblicata sulla rivista Liver Transplantation, risulta che, fra i pazienti che hanno affrontato la malattia profondamente convinti che la fede li avrebbe aiutati, il 93,4% è sopravvissuto (la mortalita’ e’ stata quindi del 6,6%), mentre tra coloro che non lo hanno fatto la sopravvivenza e’ stata pari al 79,5% (con una mortalita’ del 20,5%, tripla rispetto a quella del primo gruppo di pazienti). Durante il follow-up di 4 anni successivo al trapianto, 18 pazienti sono morti. Secondo Bonaguidi, la differenza fra i due gruppi ‘”èstatisticamente notevole, mentre la probabilita’ di ‘falso positivo’, ovvero che sia stata rilevata una differenza inesistente, è del 2,6%, nettamente inferiore alla soglia convenzionale del 5%”.
Per comprendere quali fattori fossero stati in grado di predire la mortalità dei pazienti, i ricercatori, hanno utilizzato un’analisi statistica nota come modello di Cox, “prendendo in esame fattori come l’età dei pazienti - prosegue Bonaguidi -, il sesso, il livello di istruzione e occupazione, il tipo e la gravità della malattia, l’età del donatore e alcune variabili o complicanze legate all’intervento chirurgico, come il sanguinamento peri-operatorio. Infine, abbiamo testato con lo stesso rigore scientifico il ruolo della religiosità”.
In particolare, le risposte sono state esaminate mediante un’analisi fattoriale “che ha permesso di evidenziare, attraverso una procedura matematica, le principali componenti della religiosità, definite come ricerca ‘attiva’ di Dio, attesa ‘passiva’ di Dio e generico atteggiamento fatalistico”.
A fare la differenza, secondo i ricercatori, dunque, è la religiosità vissuta in modo attivo, ossia intesa come ”cercare attivamente l’aiuto di Dio”. Un atteggiamento, ha aggiunto lo psicologo, che ”non si identifica con una religione confessionale, ma che è un aspetto intimo della personalità che porta a vedere l’incontro con la malattia grave come un momento di rielaborazione della propria esistenza, dei propri valori e di rivalutazione della componente spirituale e trascendente”.
L’analisi delle risposte “ha permesso di evidenziare, con una procedura matematica, le principali componenti della religiosità, definite come ricerca ‘attiva’ di Dio, attesa ‘passiva’ di Dio e generico atteggiamento fatalistico”. É emerso cosiì, conclude lo psicologo, che “le uniche variabili in grado di predire la mortalitàdei pazienti dopo il trapianto sono la durata della degenza in terapia intensiva e, come fattore negativo, l’assenza di ricerca di Dio, con un rischio relativo rispettivamente di 1,05 e 3,01″.
È importante anche il contesto da cui questi risultati provengono. “Un’unità operativa ad alta tecnologia, il Centro trapianti di fegato dell’università di Pisa del prof. Franco Filipponi, dove la valutazione psicologica del vissuto di malattia è paradossalmente – ha concluso Bonaguidi- più sentita e valorizzata quale risorsa di guarigione”.
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