di Paola Simonetti
Lo ha dimostrato uno studio condotto in Italia dall’Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa su 179 pazienti: mortalità tripla fra coloro che non credono.
Quello che non
può fare in pieno un farmaco forse può realizzarlo la psiche. Essere
sostenuti da positività e forza, può infatti, in qualche caso, addirittura
aiutare la sopravvivenza. Al di là di qualunque convinzione miracolistica, il
Cnr ha dimostrato ad esempio che, nell’ambito di quadri clinici legati ad un
trapianto, in alcuni casi a fare la differenza nel decorso della fase post
operatoria è la predisposizione alla ricerca di Dio, qualunque confessione
religiosa si prediliga.
Insomma, aver fede può aiutare ad allontanare la morte:
a dimostrarlo lo studio italiano dell’Istituto di fisiologia clinica del
Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa (Ifc-Cnr), condotto su 179 pazienti
che hanno subito un trapianto di fegato e seguiti per quattro anni dal gruppo
in collaborazione con il dipartimento di Trapiantologia epatica dell’università
di Pisa.
“I candidati al trapianto di fegato vengono sottoposti di routine a una
valutazione psicologica - ha spiegato il responsabile della ricerca, Franco Bonaguidi,
psicologo presso l’Ifc-Cnr -, che ha lo scopo di aiutarli ad affrontare questo
momento particolarmente difficile e a identificare eventuali controindicazioni
all’intervento. Poiché i pazienti riferivano un profondo ritorno alla religione
e alla spiritualità, la nostra ricerca ha indagato tale aspetto,
indipendentemente dal credo religioso e dalla partecipazione alle funzioni
ecclesiastiche”.
Dalla ricerca, pubblicata sulla rivista Liver Transplantation, risulta
che, fra i pazienti che hanno affrontato la malattia profondamente convinti che la
fede li avrebbe aiutati, il 93,4% è sopravvissuto (la mortalita’ e’ stata
quindi del 6,6%), mentre tra coloro che non lo hanno fatto la sopravvivenza e’
stata pari al 79,5% (con una mortalita’ del 20,5%, tripla rispetto a quella del
primo gruppo di pazienti). Durante il follow-up di 4 anni successivo al
trapianto, 18 pazienti sono morti. Secondo Bonaguidi, la differenza fra i due
gruppi ‘”èstatisticamente notevole, mentre la probabilita’ di ‘falso positivo’,
ovvero che sia stata rilevata una differenza inesistente, è del 2,6%,
nettamente inferiore alla soglia convenzionale del 5%”.
Per comprendere quali fattori fossero stati in grado di predire la
mortalità dei pazienti, i ricercatori, hanno utilizzato un’analisi statistica nota
come modello di Cox, “prendendo in esame fattori come l’età dei pazienti -
prosegue Bonaguidi -, il sesso, il livello di istruzione e occupazione, il tipo
e la gravità della malattia, l’età del donatore e alcune variabili o complicanze
legate all’intervento chirurgico, come il sanguinamento peri-operatorio.
Infine, abbiamo testato con lo stesso rigore scientifico il ruolo della
religiosità”.
In particolare, le risposte sono state esaminate mediante un’analisi fattoriale “che ha
permesso di evidenziare, attraverso una procedura matematica, le principali
componenti della religiosità, definite come ricerca ‘attiva’ di Dio, attesa
‘passiva’ di Dio e generico atteggiamento fatalistico”.
A fare la differenza, secondo i ricercatori, dunque, è la religiosità
vissuta in modo attivo, ossia intesa come ”cercare attivamente l’aiuto di Dio”. Un
atteggiamento, ha aggiunto lo psicologo, che ”non si identifica con una
religione confessionale, ma che è un aspetto intimo della personalità che porta
a vedere l’incontro con la malattia grave come un momento di rielaborazione
della propria esistenza, dei propri valori e di rivalutazione della componente
spirituale e trascendente”.
L’analisi delle risposte “ha permesso di evidenziare, con una procedura matematica, le
principali componenti della religiosità, definite come ricerca ‘attiva’ di Dio,
attesa ‘passiva’ di Dio e generico atteggiamento fatalistico”. É emerso cosiì,
conclude lo psicologo, che “le uniche variabili in grado di predire la
mortalitàdei pazienti dopo il trapianto sono la durata della degenza in terapia
intensiva e, come fattore negativo, l’assenza di ricerca di Dio, con un rischio
relativo rispettivamente di 1,05 e 3,01″.
È importante anche il contesto da cui questi risultati provengono. “Un’unità operativa ad
alta tecnologia, il Centro trapianti di fegato dell’università di Pisa del
prof. Franco Filipponi, dove la valutazione psicologica del vissuto di malattia
è paradossalmente – ha concluso Bonaguidi- più sentita e valorizzata quale
risorsa di guarigione”.