lunedì 1 febbraio 2010

L’abitudine alla felicità


Se dovessimo esaminare il significato filosofico del termine felicità entreremmo in una considerazione talmente ampia da non riuscire, molto probabilmente, a definirla o per lo meno a scoprire che il suo significato lascia spazio a moltissime definizioni, vuoi di natura interpretativa sul significato dell’esistenza dell’essere umano, vuoi di natura spirituale, culturale o quant’altro.
Diventa invece interessante studiare la felicità da un punto di vista medico, o per lo meno l’esame degli effetti dello stato di felicità da un punto di vista psicofisico.
Molti ricercatori nel campo medico hanno cercato di dare una definizione alla condizione di felicità; un esempio è dato dal dr. John Schindler il quale affermò che la felicità è da considerarsi come uno stato mentale in cui si hanno pensieri piacevoli per buona parte del tempo. Oltre alle definizioni troviamo ricercatori che hanno eseguito sperimentazioni molto semplici con risultati molto chiari. Prendiamo il dr. K. Kekcheyev, psicologo russo, il quale ottenne attraverso una sperimentazione questi risultati: ad un gruppo di persone chiese di pensare a cose piacevoli ed allegre, poi chiese loro di pensare a cose spiacevoli e tristi. Egli notò che nel momento in cui questo gruppo pensava ad aspetti piacevoli della vita, questi individui miglioravano le loro capacità di percezione, in pratica miglioravano la percezione del tatto, dell’udito, del gusto e della vista. In relazione alla capacità visiva abbiamo il dr. William Bates, artefice del ‘metodo Bates’ per il miglioramento della vista. Anche lui ha riscontrato che nel momento in cui un individuo è immerso in pensieri piacevoli o quando osserva scene gradevoli, la vista migliora. Pensare a cose belle, gradevoli, divertenti, migliora la memoria e la mente si rilassa, questo è ciò che ha capito la ricercatrice Margaret Corbett. Una ricerca condotta anni fa da un gruppo di psicologi di Harvard ha riscontrato che la maggioranza dei criminali proveniva da famiglie infelici o comunque con rapporti umani all’interno della stessa difficili, infelici o con mancanza di gioia. Si è capito che l’infelicità è nella maggior parte dei casi la vera causa di molti disturbi psicosomatici e che la condizione di felicità diventa il solo vero rimedio; questo conferma uno studio durato dieci anni presso l’Università di Yale sulla frustrazione; si è dimostrato che buona parte di ciò che noi definiamo con il termine ostilità verso altri esseri umani è la causa ed il risultato della nostra stessa infelicità.
Vi è anche una stretta relazione tra ottimismo e felicità. Una ricerca condotta su alcuni uomini d’affari ha confermato che soggetti ottimisti, che cercano il lato migliore delle situazioni, oltre a sentirsi più felici, hanno anche più successo nella realizzazione dei loro obiettivi.
Cosa ci fa capire tutto ciò? Molto probabilmente che il modo in cui noi pensiamo alla felicità determina se lo saremo oppure no. Ci è stato insegnato che se siamo buoni o facciamo determinate cose allora otterremo l’agognata felicità; ci è stato insegnato che otterremo la felicità se avremo una buona salute o se raggiungeremo il successo, o ancora se saremo onesti e gentili nei confronti del prossimo allora raggiungeremo la felicità. Sulla base di quando detto, molto probabilmente, è necessario imparare ad essere felici, acquisire il giusto stato mentale per coltivare pensieri piacevoli per buona parte della nostra vita. Se non ci è stato insegnato, iniziamo ad imparare, poco per volta, questo modo di vivere, allora essendo felici avremo successo, essendo felici saremo più buoni, essendo felici avremo una salute migliore, essendo felici ameremo di più il nostro prossimo.
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