Come i ricordi tendono ad ingannarci. Uno studio sulle false credenze che ci creiamo su di noi.
Ricercatori della Jonhs Hopkins University a Baltimora e prima di loro ricercatori della University of Pennsylvania, hanno osservato le funzionalità neuronali di 30 volontari utilizzando la RMF (Risonanza Magnetica Funzionale) durante la visione di un filmato che mostrava un borseggio ai danni di una anziana.
Per incamerare tutti i dettagli dell’evento viene attivata la parte sinistra dell’ippocampo mentre quando si tratta di elaborare i ricordi il cervello ricorre anche alla corteccia prefrontale, area predisposta per le associazioni di idee insinuando un considerevole dubbio che i ricordi prodotti potrebbero non essere conformi alla realtà ma in qualche modo “ricostruiti” e modificati.
La corteccia prefrontale, attivata dall’associazione di idee e concetti per esprimersi, sembra sempre più la principale responsabile della fallacità dei ricordi, anche i più vividi, obbligata alla associazione di idee per potersi esprimere.
Quindi si parte dalla percezione di un accadimento oggettivo, la sua registrazione in memoria e la sua conservazione, tutto questo comporta una quantità di attivazione funzionale della parte sinistra dell’ippocampo.
Recuperare questo accadimento aggiunge l’attività della corteccia prefrontale e nella sua “verbalizzazione” (raccontare l’accadimento stesso) si aggiunge un’ulteriore area denominata “del broca”.
E’ facile immaginare come queste aree diverse portino il proprio contributo al racconto finale e quindi al recupero dell’informazione stockata nella memoria, e la verbalizzazione stessa può comportare ulteriori influenze al ricordo memorizzato.
Tutto questo perché la memoria è un processo di ricostruzione successivo all’accadimento a cui si riferisce ed alle emozioni ad esso correlate. Capita spesso di correlare le nostre sensazioni alla memoria fino a farne diventare una parte indistinguibile dall’originale.
E altrettanto comune è rimodulare le credenze su di sè come accaduto per il caso di Bugs Bunny descritto più sopra.
Da questo si evince anche che mentire comporti per il cervello un lavoro maggiore.
Perché lo facciamo allora? Perché cognitivamente lo reputiamo meno pericoloso e più adattivo. Come se una volta nata la menzogna, una volta costruito un castello coerente di costruzioni e nessi, fossimo immuni dal divenire delle conseguenze.
Dire la verità è più semplice ma percepito come portatore di più complicazioni.
Forse prendere coscienza che anche quando siamo convinti di dire la verità, può essere che stiamo mentendo a nostra insaputa, può rendere la scelta fra i due atteggiamenti, meno difficile!