Diverse indagini sono state effettuate negli ultimi anni per appurare se l’humor influenzi gli stati umorali.
Già Epitteto (Ierapoli, 50 – Nicopoli d’Epiro, 120, è stato un filosofo greco antico, esponente dello stoicismo vissuto sotto l’Impero Romano - ndr) aveva notato che gli uomini non sono disturbati dagli eventi, ma dal modo in cui li guardano. Il riso negli esseri umani rappresenta una capacità evolutiva sostitutiva della risposta primaria adrenalinica agli stressors che gli uomini devono affrontare rispetto agli animali di altre specie. La capacità di godere dell’umorismo sarebbe un meccanismo che potenzia l’abilità di analizzare campi complessi di informazione e la capacità di trovare significati multipli negli stimoli, in quanto permette di affrontare la fonte dello stress conferendole significati alternativi. Esiste un buon numero di casi esemplari che indicano che l’humor possa essere utilizzato con efficacia anche in situazioni estreme. Ad esempio William Cowan ha studiato l’utilizzo dell’humor da parte dei neri delle piantagioni del Sud negli Stati Uniti prima della guerra civile. Alcuni di loro usavano l’humor per compiacere i padroni bianchi che li volevano sempre allegri e contenti. Tuttavia l’humor veniva usato anche dai neri in occasioni rituali, per prendere in giro i padroni, per affrontare lo stress del lavoro schiavistico ma anche per ritagliarsi degli angoli di potere (Cowan, 2001).
Linda Hendeman ha intervistato 50 soldati che sono stati prigionieri in Vietnam, cercando di appurare se l’humor avesse avuto un ruolo nel mantenere un buon stato di salute mentale. La marina americana ha seguito per circa vent’anni 566 soldati rimpatriati dopo un lungo periodo di detenzione nelle carceri vietnamite, alcuni dei quali sono rimasti reclusi addirittura sette anni, ed ha trovato che pochi di loro avevano avuto disturbi mentali rispetto ai prigionieri di altre guerre, che avevano mostrato un tasso di malattia mentale molto elevato che oscillava dal 50 al 90% di tutti i rimpatriati. Gli intervistati hanno dichiarato che l’umorismo è stato determinante nell’affrontare la prigionia e che, nei periodi di isolamento, era stato uno strumento per comunicare con se stessi.
Un ex prigioniero ha ricordato di aver scoperto il vero valore dell’humor circa dieci mesi dopo la cattura. Era stato messo in cella d’isolamento da alcuni mesi e stava guardando le guardie attraverso un buco nel muro. La guardia ha chiesto qualcosa al collega che ha preso il suo fucile e lo ha dato al compagno, si è tolto la cintura con i proiettili e si è levato il cappotto, poi ha cercato di prendere qualcosa dalle tasche. Dopo alcuni sforzi, la guardia ha estratto una sveglia dalla tasca, ha guardato l’ora e l’ha comunicata al suo commilitone. Il prigioniero guardando questa scena ha pensato: Ma guarda che roba, per dirgli l’ora ha dovuto svestirsi. “Ero stato picchiato ogni giorno per un mese intero, ma questa scena mi ha fatto crepare dal ridere. Quando ho finito di ridere mi sono detto: Pensavo di dover morire oggi, invece mi sono fatto una bella risata. E così mi sono accorto di quanto fosse importante l’humor in quella situazione” (Henderman, 2001).
Non solo questo soldato ma anche molti suoi compagni hanno confermato che l’humor li ha aiutati soprattutto quando costituiva una forma di comunicazione con gli altri prigionieri. Un ex marine ha raccontato che era disposto anche a rischiare le torture pur di raccontare, attraverso il muro della cella, una barzelletta al compagno vicino che aveva bisogno di sollevarsi il morale.
Anche altri autori hanno riferito che i prigionieri nei campi nazisti hanno usato l’humor per resistere all’oppressione della prigionia. Victor Frankl racconta che, quando era racchiuso nel lager, lui ed un amico si erano promessi di raccontare almeno una storiella buffa al giorno su qualcosa che poteva capitare dopo la loro liberazione. Sembra che l’humor in condizioni estreme permetta di esercitare una forma di controllo minimale sulla propria esistenza, in una situazione di quasi totale impotenza. Particolarmente importante per sopravvivere è stato l’essere capaci di inventarsi storielle buffe e di produrre attivamente umorismo. Ad esempio uno di questi veterani, per divertire i suoi compagni durante le ore d’aria, faceva finta di guidare una motocicletta nel cortile della prigione, emettendo suoni simili al motore e simulando cadute e scontri motociclistici.
.Già Epitteto (Ierapoli, 50 – Nicopoli d’Epiro, 120, è stato un filosofo greco antico, esponente dello stoicismo vissuto sotto l’Impero Romano - ndr) aveva notato che gli uomini non sono disturbati dagli eventi, ma dal modo in cui li guardano. Il riso negli esseri umani rappresenta una capacità evolutiva sostitutiva della risposta primaria adrenalinica agli stressors che gli uomini devono affrontare rispetto agli animali di altre specie. La capacità di godere dell’umorismo sarebbe un meccanismo che potenzia l’abilità di analizzare campi complessi di informazione e la capacità di trovare significati multipli negli stimoli, in quanto permette di affrontare la fonte dello stress conferendole significati alternativi. Esiste un buon numero di casi esemplari che indicano che l’humor possa essere utilizzato con efficacia anche in situazioni estreme. Ad esempio William Cowan ha studiato l’utilizzo dell’humor da parte dei neri delle piantagioni del Sud negli Stati Uniti prima della guerra civile. Alcuni di loro usavano l’humor per compiacere i padroni bianchi che li volevano sempre allegri e contenti. Tuttavia l’humor veniva usato anche dai neri in occasioni rituali, per prendere in giro i padroni, per affrontare lo stress del lavoro schiavistico ma anche per ritagliarsi degli angoli di potere (Cowan, 2001).
Linda Hendeman ha intervistato 50 soldati che sono stati prigionieri in Vietnam, cercando di appurare se l’humor avesse avuto un ruolo nel mantenere un buon stato di salute mentale. La marina americana ha seguito per circa vent’anni 566 soldati rimpatriati dopo un lungo periodo di detenzione nelle carceri vietnamite, alcuni dei quali sono rimasti reclusi addirittura sette anni, ed ha trovato che pochi di loro avevano avuto disturbi mentali rispetto ai prigionieri di altre guerre, che avevano mostrato un tasso di malattia mentale molto elevato che oscillava dal 50 al 90% di tutti i rimpatriati. Gli intervistati hanno dichiarato che l’umorismo è stato determinante nell’affrontare la prigionia e che, nei periodi di isolamento, era stato uno strumento per comunicare con se stessi.
Un ex prigioniero ha ricordato di aver scoperto il vero valore dell’humor circa dieci mesi dopo la cattura. Era stato messo in cella d’isolamento da alcuni mesi e stava guardando le guardie attraverso un buco nel muro. La guardia ha chiesto qualcosa al collega che ha preso il suo fucile e lo ha dato al compagno, si è tolto la cintura con i proiettili e si è levato il cappotto, poi ha cercato di prendere qualcosa dalle tasche. Dopo alcuni sforzi, la guardia ha estratto una sveglia dalla tasca, ha guardato l’ora e l’ha comunicata al suo commilitone. Il prigioniero guardando questa scena ha pensato: Ma guarda che roba, per dirgli l’ora ha dovuto svestirsi. “Ero stato picchiato ogni giorno per un mese intero, ma questa scena mi ha fatto crepare dal ridere. Quando ho finito di ridere mi sono detto: Pensavo di dover morire oggi, invece mi sono fatto una bella risata. E così mi sono accorto di quanto fosse importante l’humor in quella situazione” (Henderman, 2001).
Non solo questo soldato ma anche molti suoi compagni hanno confermato che l’humor li ha aiutati soprattutto quando costituiva una forma di comunicazione con gli altri prigionieri. Un ex marine ha raccontato che era disposto anche a rischiare le torture pur di raccontare, attraverso il muro della cella, una barzelletta al compagno vicino che aveva bisogno di sollevarsi il morale.
Anche altri autori hanno riferito che i prigionieri nei campi nazisti hanno usato l’humor per resistere all’oppressione della prigionia. Victor Frankl racconta che, quando era racchiuso nel lager, lui ed un amico si erano promessi di raccontare almeno una storiella buffa al giorno su qualcosa che poteva capitare dopo la loro liberazione. Sembra che l’humor in condizioni estreme permetta di esercitare una forma di controllo minimale sulla propria esistenza, in una situazione di quasi totale impotenza. Particolarmente importante per sopravvivere è stato l’essere capaci di inventarsi storielle buffe e di produrre attivamente umorismo. Ad esempio uno di questi veterani, per divertire i suoi compagni durante le ore d’aria, faceva finta di guidare una motocicletta nel cortile della prigione, emettendo suoni simili al motore e simulando cadute e scontri motociclistici.
Tratto da: Ridere è una cosa seria, Donata Francescato