di Luca Poma
Si discute sempre più frequentemente sui media di una
nuova “epidemia”: la cosiddetta sindrome da iperattività e deficit di
attenzione, siglata “ADHD”, ovvero bambini impulsivi, iper-agitati e
cronicamente disattenti. Autorevoli luminari e specialisti sono pronti a giurare
circa l’esistenza di questa nuova “malattia” dell’infanzia, e si stracciano le
vesti se messi in discussione dagli “oscurantisti medioevali”, che poi sono
tutti coloro che hanno un punto di vista differente dal loro. Altrettanto loro
autorevoli colleghi storcono la bocca, e criticano severamente un approccio che
finisce per banalizzare problematiche ben più complesse. Chi ha ragione? Ma –
cosa ben più importante – cosa dovrebbe fare chi si trova al bivio, con un
figlio forse malato di iperattività, o forse no?
E soprattutto: come si dovrebbe regolare chi il problema
l’ha già in casa? Perché è facile parlare, quando non si è toccati direttamente
dal disagio. In questo balletto di cifre, dati e pareri, è necessario fare un
po’ di chiarezza: quello che è certo, è che non esiste alcuna prova
dell’esistenza dell’Adhd, alcun marcatore biologico e mai stato individuato, e
per tante ricerche scientifiche che tentano di dimostrare l’esistenza della
sindrome, altrettante la smentiscono. Ciò non deve portarci ad abbracciare la
scriteriata tesi opposta, ovvero che non esistono disagi dell’infanzia o
problemi comportamentali degni della massima attenzione.
Il problema è: qual è la causa? Ed ancora: che tipo di
risposta noi diamo a queste delicate problematiche? Per molti specialisti,
l’Adhd è una “costellazione aspecifica di sintomi”, ovvero un insieme di
campanelli d’allarme, che segnalano problemi ben più profondi. E’ chiaro a tutti
a quali rischi esponga il persistere nel voler curare un sintomo trattandolo
come una malattia a se stante: si finisce per sedarlo, il sintomo, lasciando
sotto di esso inalterata la malattia.
Sono infatti ben un centinaio le vere patologie, spesso
appunto trascurate, che generano iperattività: classificarle tutte quante sotto
la generica voce “Adhd” è perlomeno ingenuo, ma molto di moda in questi ultimi
anni. In questa direzione si è espresso il documento di consenso scientifico più
sottoscritto in Italia su queste tematiche: ben duecentocinquanta mila addetti
ai lavori del settore salute, direttamente o per il tramite delle rispettive
associazioni di categoria, hanno dichiarato che la discussione è ancora aperta,
che non esiste alcuna prova dell’esistenza di questa “nuova” malattia, e che lo
psicofarmaco comunque non è mai di per se la soluzione, dal momento che si
limita ad intervenire sui sintomi e non cura alcunché.
Inoltre il prezzo da pagare in potenziali effetti
collaterali appare alto, se è vero – come avvisa la Fodd and Drug
Administration, massimo organismo di controllo sanitario americano – che questi
psicofarmaci possono causare ai bambini crisi maniaco-depressive, ictus, ed
anche complicazioni cardio-circolatorie fino alla morte improvvisa. “L’Adhd
com’è definita oggi è più che altro una moda, le diagnosi sono inconsistenti e
vaghe, e per come vengono perfezionate non si possono e non si devono fare”,
dice Emilia Costa, 1^ cattedra di Psichiatria dell’Università di Roma “La
Sapienza”, incalzata dal Professore di Pediatria William Carey, uno dei massimi
esperti di sviluppo comportamentale del bambini in USA, che afferma: “I
questionari che vengono utilizzati per diagnosticare questi disagi dell’infanzia
sono altamente soggettivi ed impressionistici: nonostante il fatto che le scale
di valutazione utilizzate non soddisfino i criteri psicometrici di base, i
sostenitori di questo approccio pretendono che questi questionari forniscano una
diagnosi accurata, ma così non è”.
Insomma, una storia che si spaccia per già scritta,
mentre in realtà la comunità scientifica è in pieno fermento e la discussione
incalza, con toni a volte anche accesi. Detto ciò, bisogna demonizzare in modo
meramente ideologico gli screening preventivi ed l’uso di psicofarmaci? No, ma
neanche spacciare false certezze, o ridurre a mero movimento d’opinione, indegna
di ogni rilievo, quella corrente scientifica di pensiero che ritiene – forse non
a torto – che l’ “ipersemplificazione” di problemi complessi sia essa stessa la
vera malattia del nostro terzo millennio. Mentre discutiamo, il marketing del
farmaco si fa sempre più aggressivo: ormai abbiamo una pillola per sedare ogni
tipo di problema, e non possiamo nasconderci che l’infanzia rappresenta un nuovo
e molto redditizio segmento di business per le multinazionali del farmaco, le
quali finanziano circa l’80% della ricerca mondiale, e – se è vero che ci
salvano la vita con molti prodotti utili – è altrettanto vero che tendono a non
pubblicare mai le ricerche scientifiche con esito negativo, così da non nuocere
al profilo commerciale dei propri brevetti.
In questo scenario molto poco rassicurante, l’imperativo
può essere uno solo: la prudenza ed il principio di precauzione. E’ necessario
prestare la massima attenzione affinché la scuola non diventi l’anticamera
dell’ASL, come sta succedendo in non poche città d’Italia, dove assistiamo ad
una sempre più marcato tentativo di medicalizzazione del disagio. Riflettiamo
piuttosto sul rapporto di noi adulti con i bambini: quasi sempre, per ogni
bambino che lancia un allarme e manifesta il proprio disagio profondo, c’è un
adulto che non vuole o non può ascoltarlo, e che trova maggiore serenità nella
certezza di una diagnosi e nella soluzione “facile” di una pastiglia miracolosa,
piuttosto che nel doversi mettere lui stesso in discussione.
Luca Poma - Giornalista
Portavoce Nazionale Campagna
"GiuleManidaiBambini"
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