lunedì 31 ottobre 2011

ADHD sì, ADHD no: il farmaco è alle porte?

di Luca Poma
Si discute sempre più frequentemente sui media di una nuova “epidemia”: la cosiddetta sindrome da iperattività e deficit di attenzione, siglata “ADHD”, ovvero bambini impulsivi, iper-agitati e cronicamente disattenti. Autorevoli luminari e specialisti sono pronti a giurare circa l’esistenza di questa nuova “malattia” dell’infanzia, e si stracciano le vesti se messi in discussione dagli “oscurantisti medioevali”, che poi sono tutti coloro che hanno un punto di vista differente dal loro. Altrettanto loro autorevoli colleghi storcono la bocca, e criticano severamente un approccio che finisce per banalizzare problematiche ben più complesse. Chi ha ragione? Ma – cosa ben più importante – cosa dovrebbe fare chi si trova al bivio, con un figlio forse malato di iperattività, o forse no?
E soprattutto: come si dovrebbe regolare chi il problema l’ha già in casa? Perché è facile parlare, quando non si è toccati direttamente dal disagio. In questo balletto di cifre, dati e pareri, è necessario fare un po’ di chiarezza: quello che è certo, è che non esiste alcuna prova dell’esistenza dell’Adhd, alcun marcatore biologico e mai stato individuato, e per tante ricerche scientifiche che tentano di dimostrare l’esistenza della sindrome, altrettante la smentiscono. Ciò non deve portarci ad abbracciare la scriteriata tesi opposta, ovvero che non esistono disagi dell’infanzia o problemi comportamentali degni della massima attenzione.
Il problema è: qual è la causa? Ed ancora: che tipo di risposta noi diamo a queste delicate problematiche? Per molti specialisti, l’Adhd è una “costellazione aspecifica di sintomi”, ovvero un insieme di campanelli d’allarme, che segnalano problemi ben più profondi. E’ chiaro a tutti a quali rischi esponga il persistere nel voler curare un sintomo trattandolo come una malattia a se stante: si finisce per sedarlo, il sintomo, lasciando sotto di esso inalterata la malattia.
Sono infatti ben un centinaio le vere patologie, spesso appunto trascurate, che generano iperattività: classificarle tutte quante sotto la generica voce “Adhd” è perlomeno ingenuo, ma molto di moda in questi ultimi anni. In questa direzione si è espresso il documento di consenso scientifico più sottoscritto in Italia su queste tematiche: ben duecentocinquanta mila addetti ai lavori del settore salute, direttamente o per il tramite delle rispettive associazioni di categoria, hanno dichiarato che la discussione è ancora aperta, che non esiste alcuna prova dell’esistenza di questa “nuova” malattia, e che lo psicofarmaco comunque non è mai di per se la soluzione, dal momento che si limita ad intervenire sui sintomi e non cura alcunché.
Inoltre il prezzo da pagare in potenziali effetti collaterali appare alto, se è vero – come avvisa la Fodd and Drug Administration, massimo organismo di controllo sanitario americano – che questi psicofarmaci possono causare ai bambini crisi maniaco-depressive, ictus, ed anche complicazioni cardio-circolatorie fino alla morte improvvisa. “L’Adhd com’è definita oggi è più che altro una moda, le diagnosi sono inconsistenti e vaghe, e per come vengono perfezionate non si possono e non si devono fare”, dice Emilia Costa, 1^ cattedra di Psichiatria dell’Università di Roma “La Sapienza”, incalzata dal Professore di Pediatria William Carey, uno dei massimi esperti di sviluppo comportamentale del bambini in USA, che afferma: “I questionari che vengono utilizzati per diagnosticare questi disagi dell’infanzia sono altamente soggettivi ed impressionistici: nonostante il fatto che le scale di valutazione utilizzate non soddisfino i criteri psicometrici di base, i sostenitori di questo approccio pretendono che questi questionari forniscano una diagnosi accurata, ma così non è”.
Insomma, una storia che si spaccia per già scritta, mentre in realtà la comunità scientifica è in pieno fermento e la discussione incalza, con toni a volte anche accesi. Detto ciò, bisogna demonizzare in modo meramente ideologico gli screening preventivi ed l’uso di psicofarmaci? No, ma neanche spacciare false certezze, o ridurre a mero movimento d’opinione, indegna di ogni rilievo, quella corrente scientifica di pensiero che ritiene – forse non a torto – che l’ “ipersemplificazione” di problemi complessi sia essa stessa la vera malattia del nostro terzo millennio. Mentre discutiamo, il marketing del farmaco si fa sempre più aggressivo: ormai abbiamo una pillola per sedare ogni tipo di problema, e non possiamo nasconderci che l’infanzia rappresenta un nuovo e molto redditizio segmento di business per le multinazionali del farmaco, le quali finanziano circa l’80% della ricerca mondiale, e – se è vero che ci salvano la vita con molti prodotti utili – è altrettanto vero che tendono a non pubblicare mai le ricerche scientifiche con esito negativo, così da non nuocere al profilo commerciale dei propri brevetti.
In questo scenario molto poco rassicurante, l’imperativo può essere uno solo: la prudenza ed il principio di precauzione. E’ necessario prestare la massima attenzione affinché la scuola non diventi l’anticamera dell’ASL, come sta succedendo in non poche città d’Italia, dove assistiamo ad una sempre più marcato tentativo di medicalizzazione del disagio. Riflettiamo piuttosto sul rapporto di noi adulti con i bambini: quasi sempre, per ogni bambino che lancia un allarme e manifesta il proprio disagio profondo, c’è un adulto che non vuole o non può ascoltarlo, e che trova maggiore serenità nella certezza di una diagnosi e nella soluzione “facile” di una pastiglia miracolosa, piuttosto che nel doversi mettere lui stesso in discussione.

Luca Poma - Giornalista

Portavoce Nazionale Campagna "GiuleManidaiBambini"


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